Letteratura,  Narrativa

Pastorale americana, Philip Roth

Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?

Con una domanda, questa domanda, si chiude Pastorale americana, una dettagliata epopea di 460 pagine, pubblicata nel 1997 e vincitrice del Pulitzer nel 1998. 

Forse la risposta all’arcano quesito sta nell’interpretare l’intera vita dei Levov, famiglia di origine ebraica trapiantatasi negli Stati Uniti, in modo allegorico. I Levov incarnano infatti l’allegoria di un’America perduta, un paradiso delle possibilità che si è sgretolato ed è rimasto schiacciato sotto il proprio peso e le proprie aspettative. La famiglia Levov è lo specchio di quegli Stati Uniti che non esistono più, che appartengono a un passato mitologico, pionieristico, figlio di migrazioni e puritanesimo, democratica violenza e angosciosa ricerca di un posto nel mondo. Pastorale americana descrive bene le magnifiche e allo stesso tempo atroci contraddizioni che caratterizzano questa terra tanto ricca quanto inafferrabile, e lo fa adottando uno stile che è un perfetto connubio tra nostalgia e aspro sarcasmo. E fin dalle prime battute il narratore ci mette in guardia, suggerendoci la chiave di lettura dell’intera vicenda, e che oltretutto custodisce una preziosa lezione umana:

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d’acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l’affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d’incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l’incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell’incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati.

Tanti sono i temi trattati da Philip Roth in questa immensa saga che spesso mi ha ricordato Middlesex di Eugenides, dalle migrazioni che hanno reso grande l’America del nord allo scontro tra culture e religioni diverse, dal boom postbellico alla guerra in Vietnam, dagli attentati dei terroristi made in USA appartenenti alla frangia Weather Underground alla Guerra fredda, dal mito del self made man  alle rivendicazioni dei cittadini afroamericani, dall’ingresso prepotente della televisione nei salotti americani all’accenno a complessi di Edipo irrisolti, fino allo spiritualismo new age, per citarne solo alcuni. Difficile quindi riuscire a rendere giustizia a un romanzo che prende l’essenza stessa della storia moderna americana, la strizza, la spreme e ne ricava infine un succo sublime per quanto riassuntivo e allo stesso tempo totalizzante nel condensarne l’incomunicabilità generazionale.

La parabola decadente di Roth segna l’ineluttabile rottura della pastorale americana, rottura annunciata dal microdramma familiare – Merry, la figlia dinamitarda – che si trasforma nel dramma universale di una intera nazione in declino. Con lo spaccio di Hamlin salta in aria anche la certezza di una vita ideale e perfettamente equilibrata, quella che lo Svedese – grande interprete dell’American dream, nonché protagonista della vicenda – sogna per se stesso e per la sua famiglia. La deflagrazione della bomba rudimentale di Merry segna l’inizio della rovina dell’idilliaca arcadia, svelando l’altra faccia della medaglia: “La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America.

Quell’America pronta ad essere acriticamente casa di tutti, ma in fondo patria di nessuno, la stessa che passivamente accetta il massiccio afflusso di centinaia di culture diverse ma poi non ne sa reggere l’inevitabile implosione entropica, lasciandola in balia di se stessa e relegandola nelle periferie al di fuori delle grandi città.

Esaustivo in questo senso il sarcastico passaggio in cui il padre dello Svedese, Lou Levov, pilastro della comunità ebraica fondata sul valore del lavoro e della famiglia (pilastro destinato anch’esso a sgretolarsi sotto il peso di una società che sta cambiando e sta abbandonando la tradizione in favore del disordine), sottopone la cattolica irlandese Dawn, futura moglie dello Svedese, a un terzo grado in apparenza fondato su divergenze religiose, ma in realtà interamente basato sul traumatico passaggio di testimone dall’America del passato all’America moderna. 

Sai cosa fanno dei prepuzi dei ragazzini ebrei dopo la circoncisione? (…) Li mandano in Irlanda. Aspettano di averne abbastanza, poi li mettono tutti insieme, li mandano in Irlanda e li usano per fare dei preti.  

Di fronte all’ingenua utopia dello Svedese di vivere una vita impeccabile ed equilibrata, il fratello Jerry sbotta con cinismo pragmatico, tentando invano di riportarlo alla realtà delle cose e incasellandolo in una vecchia America dal sapore Miltioniano ormai perduta:

Per la tipica attività del maschio tu vai bene, sei l’uomo d’azione, ma questa non è la tipica attività del maschio. Sì. Non ti ci vedo proprio. Ti vedo solo giocare a baseball, a fabbricare guanti e sposare Miss America. Là, in campagna con Miss America, a smussare gli angoli e semplificare tutto. Là in campagna a far finta di essere due Wasp, la ragazzetta irlandese che viene dal porto di Elizabeth e il giudeo di Weequahic High. Le vacche. La società degli allevatori. Vecchia America coloniale.

Esilarante anche il ruolo che ricopre il film Gola profonda, bizzarro oggetto di una lunga disquisizione all’interno del romanzo, nonché spartiacque simbolico che consente a Philip Roth di trasporre su carta la sovversione della società americana, che implode con frastuono poiché incapace di far convivere il vecchio e il nuovo, l’ordine e il disordine, il passato e la contemporaneità al suo interno:

Ma Gola profonda non era mai stato il vero argomento. Quello che ribolliva sotto Gola profonda era l’argomento, assai più disgustoso e trasgressivo, di Merry, di Sheila, di Shelly, di Orcutt e Dawn, dell’immoralità, del tradimento e dell’inganno, dell’infedeltà e della disunione tra amici e vicini, l’argomento della crudeltà. La parodia dell’integrità umana, la distruzione di ogni dovere morale: ecco il vero tema della serata!

Roth racconta degli Stati Uniti completamente smarriti, che non possono più fare affidamento sulla speranza di rivivere l’integrità delle glorie del passato, ormai inattuali e osteggiate, né di ricostruire nuove fondamenta nel futuro, in mano a forze grottesche e disordinate, come Merry. E se un lifting facciale basta a Dawn per non vedere più “tutto quello che ha passato” e relegare il tormento e l’infelicità nell’oblio, lo stesso non si può dire di un paese così intimamente martoriato. Perciò non resta altro da fare che prendere atto della potenza ineluttabile della contropastorale e soggiacere alla sua forza devastante. 

Marcia si lasciò cadere sulla sedia vuota di Jessie, davanti al bicchiere pieno di latte fino all’orlo, e col viso tra le mani cominciò a ridere dell’ottusità di cui avevano dato prova davanti alla fragilità di tutto il meccanismo, a ridere e ridere ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava colando rapidamente a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento, come sembrano fare sempre, storicamente, certe persone, per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste.

Un consiglio spassionato: evitate la trasposizione cinematografica di Ewan McGregor come la peste.

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