Revolutionary Road, Richard Yates
Il grande Gatsby, insieme a buona parte dei libri di Fitzgerald, ha rappresentato la mia iniziazione al mestiere di scrittore.
Frustrazioni che sembrano aver caratterizzato la vita stessa di Yates, morto squattrinato e solo tra tende sudice e barattoli di senape, fumo, alcol e scarafaggi, dimenticato dal pubblico per lunghi, interminabili anni, per essere poi finalmente inserito nel canone americano con un imperdonabile ritardo.
“Come i propri personaggi, (Yates) non poteva fare a meno di essere quello che era; se fosse vissuto abbastanza da vedere la propria fama crescere, senza dubbio avrebbe continuato a crucciarsi ancora di più per le proprie pecche,e avrebbe ripreso la lotta solitaria per fare qualcosa di meglio”, dice Blake Bailey, attribuendo a questa ricerca personale e artistica un eroismo angosciato, che non lascia respiro. Ed è proprio a questo tentativo di “fare qualcosa di meglio” che Yates ci mette violentemente di fronte nel suo romanzo, lasciando nell’anima del lettore un profondo senso di colpevole disagio. Come la figlia Monica sostiene “leggendo i libri di papà si rimane sempre istintivamente umiliati davanti a tutte le fissazioni dei suoi personaggi, e ci si sente imbarazzati e smascherati. Ecco perché i suoi libri non sono popolari: solo chi trae dalla grande arte una gioia tanto forte da superare questo disagio riesce a goderseli”. Tuttavia questo compito si rivela essere tremendamente arduo perché Yates ha l’abilità di metterci di fronte agli aspetti più miserabili delle nostre vite, alle bugie che raccontiamo a noi stessi e di conseguenza alle persone che ci circondano, interpretando ruoli che ci stanno stretti, votandoci con entusiasmo all’infelicità. E la cosa più dolorosa è che lo fa utilizzando un caustico black humour che spesso e volentieri sfocia nell’aperta satira e in un sarcasmo al vetriolo.
Revolutionary Road è un romanzo contemporaneo perché raccontando gli Stati Uniti degli anni Cinquanta racconta la nascita del capitalismo industriale e della potenza con cui ha condizionato le vite della popolazione nordamericana. Frank e April Wheeler, infatti, sono una comune coppia di giovani coniugi che si trasferisce in una splendida casa in uno splendido complesso medio borghese negli splendidi sobborghi newyorchesi. Frank e April hanno due figli e una finestra panoramica ma desiderano altro e sono schiacciati dalla ipocrita patina di perfezione tipica del ruolo sociale e culturale che devono interpretare. Giusto l’alcol onnipresente e un progetto folle destinato a fallire nel momento stesso in cui viene formulato possono dare loro l’illusione di aspirare a una vita di successo, ma la loro ingenua superiorità non si rivela essere altro che un pietoso tentativo anticonformista, che ricorda ai Wheeler, prima ancora che al lettore, che da un certo tipo di esistenza non si può (più) scappare e chi ci prova è destinato al fallimento o viene internato in manicomio, proprio come John Givings. E qui la satira di Yates si fa spietata.
April stessa, stanca di rincorrere l’illusione di essere ciò che non è, afferma:
tutto quello che dicevi era basato su quella che è la nostra premessa fondamentale, che noi siamo qualcosa di diverso e superiore, e io avevo una gran voglia di dire: ‘Ma non lo siamo! Ma guardaci! Siamo tali e quali la gente di cui stai parlando! Siamo la gente di cui stai parlando!’ Provavo… non so, come del disprezzo per te, perché non riuscivi a vedere la tremenda falsità dell’insieme. (…) E’ stato così che noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: un’enorme, oscena illusione: l’idea che, una volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e “sistemarsi”. E’ la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese, la menzogna che ti ho obbligato ad accettare per tutto questo tempo. Ti ho obbligato a vivere secondo questa menzogna! Dio mio, sono giunta al punto di creare questa immagine di me stessa completamente melensa, da dramma borghese.
Tutto, in lei, sembrava volutamente inteso a provare, con nuova, pesante enfasi, che essere una massaia piccolo borghese, piena di buon senso, era tutto ciò che avesse mai desiderato, e che tutto ciò che avesse mai desiderato dall’amore era semplicemente un marito che ogni tanto andasse a tagliar l’erba, invece di dormire tutto il giorno.
L’aspirazione di scavalcare la norma attraverso atti ribelli sfocia nello stigma sociale – viene bollata infatti come isterica e nevrotica, madre innaturale che va curata – per poi realizzarsi soltanto nella (inevitabile) tragedia, forse l’unico momento autentico nell’intera vita dei Wheeler.
Il disperato vuoto. Cielo, c’è un sacco di gente che la parte del vuoto l’ha capita; laggiù dove lavoravo, sulla costa occidentale, non parlavamo d’altro. Ce ne stavamo seduti a chiacchierare del vuoto per tutta la notte. Ma nessuno ha mai detto disperato, era lì che ci mancava il coraggio. Perché forse ci vuole una certa dose di coraggio per rendersi conto del vuoto, ma ne occorre un bel po’ di più per scorgere la disperazione. E secondo me, una volta che si scorge la disperazione, non resta altro da fare che tagliare la corda.
Al diavolo la realtà! Dateci un po’ di belle stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori, fateci avere un bel senso di appartenenza e allevare i figli in un bagno di sentimentalismo – papà è un grand’uomo perché guadagna quanto basta per campare, mamma è una gran donna perché è rimasta accanto a papà per tutti questi anni – e se mai la buona vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto.
Il film
Le battute iniziali della trasposizione cinematografica di Sam Mendes sembrano incarnare alla perfezione Revolutionary Road. Kate Winslet e Leonardo di Caprio sbraitano, si urlano addosso, si accusano di essersi resi infelici a vicenda e lo fanno in modo magistrale, catapultandoci direttamente tra le pagine di Yates, conferendo loro un aspetto visivo che aderisce perfettamente a quello che ci eravamo immaginati.
Lo sguardo di Kate Winslet non ha bisogno di parole, in quanto interpreta tutto il melodrammatico senso di impotenza di April, con un bicchiere di vino in una mano e la sigaretta nell’altra, come se fosse appena uscita da un quadro di Hopper. Leonardo di Caprio, dal canto suo, sembra essere una scelta azzeccata: un Frank Wheeler antipatico, fasullo, arrogante e noioso pronto a tradire la moglie con la segretaria perché incastrato in un matrimonio infelice.
Anche nel film, come nel libro, la casa assume un valore simbolico molto potente e la dicotomia tra interno ed esterno si fa palese. Il tetto coniugale è luogo di liti e oppressione, così grande e luminosa eppure così stretta, mentre l’esterno della casa, dal giardino al bosco dietro l’abitazione, è spazio di riflessione e di piccoli attimi di spensieratezza, di distacco dalle incombenze della vita.
I tenui colori pastello sembrano sbiadire man mano che l’epilogo della vicenda si avvicina e la gonna macchiata di rosso di April assume un’enorme potenza visiva, ritratta nella placida, perfetta calma dei sobborghi newyorchesi: un portentoso schiaffo silenzioso alla società statunitense borghese degli anni Cinquanta.