I miei scritti,  Letteratura

Lo zainetto di Y

E’ una fredda giornata di novembre. Sto tornando da scuola a piedi, assorta nei miei pensieri, mentre il vento gelido mi spinge un po’ dove vuole. Ho appena imboccato la mia via di casa, le mani ben calate nelle tasche della giacca. A un certo punto si para davanti a me un ragazzo, che inizia a chiedermi informazioni. E’ giovane, non tanto alto, sembra infreddolito, i suoi vestiti non mi sembrano molto adatti alla stagione. Ha uno zainetto sulle spalle e mi sembra spaesato. Mentre mi avvicino lo osservo guardarsi intorno. Siamo ormai a due passi di distanza e mi saluta con un sorriso smagliante.

Nella mia mente passano tanti pensieri in un solo istante, dettati da un assetto culturale che mi ha sempre insegnato la diffidenza e la distanza. A livello istintivo mi sento momentaneamente irrazionalmente minacciata, ma poi subentra la lucidità e ricambio educatamente il saluto. Il ragazzo si presenta, parlandomi in inglese. Rispondo in inglese e mi presento anche io. Scambiamo qualche battuta, mi dice che è appena arrivato dalla Sicilia. E prima ancora dal Gambia. Gli chiedo quanti anni ha, mi risponde 20. Gli chiedo se parla italiano, mi risponde di sì, anche se non molto bene.

La nostra conversazione continua nella mia lingua madre e mi rendo conto di una cosa molto buffa. Il suo italiano ha una inflessione siciliana. Glielo faccio notare divertita, lui sorride e mi racconta della sua vita in quella magnifica isola, di quando ci è arrivato dall’Africa e dei lavori che ha fatto per sopravvivere. Tutto questo con una educazione, una gentilezza a cui non ero più abituata, anacronistica. Prodigo di sorrisi, Y. parla in modo incerto ma dolce, con un tono di voce posato. Tuttavia mi sembra sofferente, di quelle sofferenze mute, soffocate. Sembra quasi se la porti dietro, nel suo zainetto.

La mia curiosità non si arresta, Y. mi sembra bendisposto a condividere con me un pezzetto della sua esistenza e io mi sento a mio agio con lui, quindi continuiamo la nostra conversazione in mezzo alla strada. Mi dice che è appena arrivato qui al nord in cerca di lavoro, grazie a qualche contatto ha la possibilità di dormire e mangiare. In Sicilia il lavoro scarseggia e sta cercando un po’ di fortuna qui. Mi chiede come raggiungere l’area industriale cittadina, perché vuole presentarsi alle industrie e offrire la sua manodopera. Gli spiego che le cose sono un po’ più complicate di così: meglio preparare un curriculum e iscriversi a qualche agenzia interinale.

Ed ecco che all’improvviso le mie sovrastrutture culturali da bianca occidentale privilegiata si ergono dritte davanti a me. Y. mi chiede il contatto Facebook e il numero di telefono, affinché possa dargli una mano. Mi chiudo per qualche istante nella mia zona di comfort, mi chiedo se posso fidarmi di lui, mi sento in colpa per questo pensiero, mi sembra così solo e malinconico. Opto per il contatto Facebook e in pochi secondi ci aggiungiamo alle rispettive liste di amici. E infine ci salutiamo. Vedo Y. allontanarsi lungo il marciapiede, diretto verso la zona industriale. “Non mi ha voluto ascoltare”, penso.

Nemmeno il tempo di arrivare a casa che Y. mi ha già scritto. Mi ringrazia tanto, dice che sono stata gentile. Io mi sento ancora più in colpa, perché sento di non meritarmi dei ringraziamenti solo perché ho rivolto la parola a un altro essere umano. Mi sento a disagio. Iniziamo a chattare e invio a Y. un po’ di contatti: uffici di collocamento, sindacato, agenzie per il lavoro. Gli preparo un curriculum e lo iscrivo a qualche sito di ricerca lavoro.
Ogni tanto lui mi scrive, sempre per ringraziarmi, anche se non so di cosa. Mi dice che ha trovato un lavoro in nero, piuttosto sfiancante. Finché, finalmente, dopo mesi, mi comunica che ha un lavoro a contratto determinato. Sono sinceramente contenta per lui, se lo merita davvero. E mi accorgo di una cosa: che mi sono affezionata a Y.

Il tempo passa e la notizia arriva: Y. ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Lo rivedo dopo più di un anno. Questa volta indossa vestiti pesanti, ma il suo zainetto è sempre lì. Ci salutiamo con due baci, andiamo a bere un caffè e lui sta seduto raccolto, lo zainetto stretto tra le braccia, come se custodisse con gelosia qualcosa di molto prezioso.
Chiariti alcuni dubbi sul suo contratto, iniziamo a parlare. E pian piano le parole diventano lame. Y. ha lasciato il Gambia a 16 anni insieme a un paio di amici. Hanno viaggiato in autobus attraversando quattro stati, per poi proseguire a piedi nel deserto.

Si muovevano in clandestinità tra un confine e l’altro, in quanto non avevano documenti. Hanno attraversato il deserto senza cibo, con una bottiglietta d’acqua. Ci hanno impiegato sette lunghi giorni. E poi l’inferno: la Libia. I soldi erano finiti, bisognava lavorare per poter sperare di attraversare il Mediterraneo e i muratori, in Libia, sono molto richiesti. Di giorno al lavoro, di notte nascosti: le milizie non lasciano scampo, se ti prendono il tuo destino è il campo di detenzione.

Ma Y. e i suoi amici ce l’hanno fatta: dopo nove mesi di puro terrore, hanno pagato profumatamente il loro posto sulla barca e sono partiti alla volta dell’Italia.
Quando scappi dagli aguzzini, l’acqua e il cibo sono il tuo ultimo pensiero: la priorità è sopravvivere ai campi libici, fino al prossimo inferno. Quello di Y. è stato il mare: cinque giorni di navigazione ininterrotta, senza acqua, senza cibo. E da tre che erano partiti, presto rimangono in due. Y. vede uno dei suoi migliori amici affogare in acqua.

Finalmente la terraferma! Le coste della Sicilia si aprono a Y., che sbarca e si divide dal suo ultimo amico per cercar fortuna. Lavapiatti prima, addetto alla raccolta dei rifiuti dopo. Finché di lavoro non ce n’è più ed eccoci qui, al tavolino di un bar, a condividere esperienze, paure e sacrifici. Y. ce l’ha fatta, ma tanti suoi fratelli e sorelle no. Ha un lavoro sfiancante a tempo indeterminato, che raggiunge in un’ora partendo alle 5 di mattina a bordo della sua bicicletta, come si faceva sessant’anni fa. Ed è felice come non mai. Y. ora sorride e sogna di tornare in Gambia per riabbracciare la sua mamma e i suoi fratelli e sorelle. E io sorrido con lui.

E’ il momento dei saluti. Ci abbracciamo, gli auguro in bocca al lupo, gli dico che il suo accento siciliano non l’ha perso. Ma mi dimentico di dire a Y. una cosa importante. Scusami per aver dubitato, per non aver creduto subito al tuo sorriso, per aver ceduto alle mie sovrastrutture. Ora il mio numero te lo darei volentieri. Spero tu possa realizzare i tuoi sogni. Spero tu possa continuare a sorridere, lasciando andare la sofferenza che ti porti dentro quello zainetto.

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