Cinema

Cosa hanno in comune i migliori film del 2019

Cosa hanno in comune i migliori film del 2019? Sul sito di Cineforum.it è apparsa qualche mese fa la classifica dei migliori film del 2019. La lista è stata redatta sulla base dei voti dati dalla critica cinematografica italiana a 20 film usciti nelle sale.
Pertanto ho deciso di investire parte della mia quarantena nella visione dei film presenti nella lista che mi mancavano. Ho quindi stilato la mia classifica personale, ovviamente diversa – più per gusto che per competenze – da quella pubblicata da Cineforum.
Dedicandomi alla visione delle pellicole citate, mi sono accorta che era possibile tracciare un filo conduttore che accomunava tutti i titoli e che emergeva in modo piuttosto evidente.

Connessioni tematiche

Tratto comune a tutti questi film, che forse ci suggerisce una lettura della società contemporanea attraverso l’occhio della macchina da presa, è che i protagonisti sono quello che non vorrebbero essere e sognano di essere quello che non sono. Che sia questo il male di vivere contemporaneo? La frustrazione derivata dalla incapacità o impossibilità data dalle circostanze di realizzarci? Il senso di inadeguatezza che ci fa sentire stretti nelle nostre piccole vite e ci fa desiderare di essere qualcun altro?
A questo proposito farò degli esempi concreti relativi a ogni film secondo il mio ordine di classifica, per tracciare connessioni e fili rossi.

1. Ritratto della giovane in fiamme

Questo è in assoluto il film che ho adorato. Cineforum lo mette in diciottesima posizione, io in prima. Complice il fatto che Celine Sciamma sia una delle mie registe preferite?
I close up, le scene e i dialoghi intensi, le inquadrature pittoriche che sembrano vere e proprie tele e lo studio minuzioso dei corpi sono i motivi per i quali mi sono subito affezionata a questo film. Al di là della sceneggiatura molto coinvolgente, è possibile captare ogni respiro, ogni sguardo carico di amore e passionalità ma allo stesso tempo di sofferenza. Ed è proprio su questa sofferenza che voglio soffermarmi per indagare che cosa hanno in comune i migliori film del 2019. Heloise vorrebbe essere libera e non lo è. Vorrebbe scappare dalla prigionia di un matrimonio imposto e fuggire con la amata pittrice, ma la società patriarcale, di cui la madre è pregna, la soffoca senza lasciarle via di scampo.
Una tanto fugace quanto intensa storia d’amore in cui si ritrovano tutte le contraddizioni sociali e culturali dell’Europa di fine Settecento.
Colonna sonora minimalista, fatta di voci di donne, sospiri e della penetrante Estate di Vivaldi, che fa da contorno a un climax insolitamente posto a conclusione dell’intera opera.

2. La favorita

Come ho un debole per la Sciamma, così ce l’ho per Yorgos Lanthimos. Per questo il mio secondo posto corrisponde esattamente al diciannovesimo di Cineforum.
I virtuosismi e i manierismi del regista greco, che comprendono grandangoli, piani-sequenza e filtri improbabili, mi affascinano incredibilmente. Il suo violento cinismo mi spaventa e mi turba, ma allo stesso tempo lo ritengo una lucida lente di ingrandimento sulla società moderna. Se ci aggiungo Olivia Colman nei panni della regina Anna d’Inghilterra e la storia inglese, di cui sono appassionata, il quadro è completo.
Anche La favorita si inserisce perfettamente in quella insoddisfazione e in quella frustrazione che ho identifico come filo conduttore. Infatti la regina Anna vorrebbe essere amata per quella che è, non certo per il ruolo che ricopre. Per questo ama essere contesa dalle due cortigiane, che poi in fondo si approfittano di lei e della sua volubilità nello stesso modo. Questo suo vorace (in tutti sensi) desiderio non si avvera, lasciandola affranta e sconsolata.
Allo stesso tempo le sue due cortigiane aspirano a una posizione sociale più alta, perché la povertà o l’anonimato non le soddisfano e usano ogni mezzo per cambiare la loro condizione.

3. Storia di un matrimonio

Questa produzione Netflix vince il quarto posto nella classifica della critica, quindi a sto giro non siamo troppo distanti.
L’opera è a tutti gli effetti un esperimento ben riuscito di meta-cinematografia, in cui il cinema si fonde perfettamente con il teatro. La costruzione della scena è teatrale, così come l’uso dello spazio.
Siamo a metà tra Woody Allen e il Roman Polanski di Carnage: il dramma esplode quando l’aria è satura di tensione e isteria. Così si arriva al raggiungimento del climax, che erutta durante un litigio grazie alla perfetta mimica facciale dei volti dei due protagonisti. La tensione narrativa sale gradualmente, fino a sfociare in una lite furibonda all’insegna di quella isteria incontenibile
I personaggi si muovono dialogando tra loro o assorti nel loro soliloquio, come se stessero occupando un palcoscenico. I corpi decretano vicinanze e distanze, agitandosi in una scenografia minimalista.
Il riferimento costante è Ingmar Bergman (Scene da un matrimonio) e la grandiosa Scarlett Johansson in caschetto ha un non so che di Liv Ullman misto Bibi Andersson.
Dal punto di vista delle connessioni citate precedentemente, la coppia vorrebbe un matrimonio perfetto e la frustrazione del non averlo – probabilmente a causa di una forte incomunicabilità – porta a una devastante insoddisfazione che caratterizza entrambe le parti.

4. Il traditore

Sono molto contenta di inserire tra le prime posizioni un film italiano. Per di più di Marco Bellocchio, che i critici piazzano all’undicesimo posto. Questo film mi ricorda il cinema italiano di inchiesta e denuncia di un tempo.
La morte si respira in ogni inquadratura, come una condanna, una spada di Damocle percepita dai due opposti, Falcone e Buscetta, in un dialogo straziante in cui con nostalgica arrendevolezza i due sanno già quale sarà il loro destino. Eppure tra i due solo il pentito potrà morire in pace nel suo letto come aveva desiderato.
Si tratta di un minuzioso lavoro di ricostruzione dei maxiprocessi antimafia. Nonché del racconto di cosa diventa Cosa Nostra dopo il passaggio da “organizzazione vicina al popolo basata sull’onore”, come la definiscono i mafiosi al suo interno, a macchina di morte che non guarda in faccia nessuno a causa del cambiamento portato dal traffico di eroina.
“Vent’anni fa un giudice disse: la mafia finirà quando un mafioso parlerà. Ora non sono solo io che parlo, ora c’è una marea di gente che sta parlando”. Questa una delle tante citazioni memorabili.
Bravissimo Pierfrancesco Favino, anche nel saltare in continuazione da una lingua all’altra, tra portoghese, dialetto siciliano, italiano e inglese.
Ma cosa ha in comune Buscetta con gli altri personaggi? Egli vorrebbe essere l’uomo d’onore che in realtà non è, in quanto prima tradisce lo Stato, poi tradisce la Mafia, vivendo un forte dissidio interiore. Vorrebbe essere un padre per i suoi numerosi figli, eppure li manda al macello, fallendo anche nel suo ruolo di genitore.

5. The Irishman

Il vincitore su Cineforum.it. E come dargli torto? Il cast è spettacolare: la triade Pesci, De Niro e Pacino è qualcosa di straordinario. Attempati e stanchi, antieroi contemporanei coi capelli grigi, sono specchio nostalgico di un passato glorioso.
La varietà di movimenti di macchina e delle inquadrature vale da sola la visione di tre ore e mezza di un film, che riporta in auge gli antichi fasti di un genere che ha segnato la storia del cinema. Un viaggio all’interno di tre epoche attraverso una fotografia retro impeccabile e delle scenografie curate nei minimi dettagli. Tutto l’insieme coopera per raggiungere quella perfezione formale che non scade mai nel manierismo.
Tra le citazioni cult: “Di solito tre persone mantengono un segreto solo se due di loro sono morte.” E “Rivolgetevi al mio avvocato, Mr Ragano.” “E’ morto.” “CHI è stato?” “Il cancro.”
Ho trovato l’ultima mezzora particolarmente geniale nella sua costruzione: il montaggio del rapimento e della esecuzione e la scena in carcere, a dir poco sardonica. Un gruppo di spietati criminali affiliati a organizzazioni senza scrupoli che si ritrovano a giocare a bocce in galera. Chi incontinente, chi sulla sedia a rotelle, chi con l’artrite. Un intero sistema preso per i fondelli, come a significare che non è tanto importante quanta strada fai, tanto si finisce tutti senza denti a mangiare pane dolce intinto nel succo d’uva, pieni di rimpianti e in attesa della morte.
E proprio a questo mi lego. A Frank, l’irlandese del titolo, non basta l’umile lavoro di trasportatore. Vuole migliorare la sua posizione sociale e entra nella più grande organizzazione criminale di stampo mafioso di Detroit. Qui acquisisce prestigio e entra nelle grazie del boss Russel. Diventa un uomo sempre più duro e arido, perde completamente il contatto con la figlia Peggy. Questo, insieme all’assassinio del suo migliore amico, rimarrà il suo più grande rimpianto, nonostante il rifiuto della redenzione.

6. Parasite

Il secondo posto della critica è la quintessenza della perfezione formale. Amo molto il cinema coreano e questo film, letteralmente osannato da critica e pubblico, non fa eccezione. Ma dopo aver visto The Hole di Tsai Ming-liang, i film di Kim Ki Duk e Lanthimos, Parasite perde qualche posizione.
L’uso degli spazi, dal lusso alla miseria, è perfettamente reso dai movimenti di macchina. La metafora sociale rappresentata non ha bisogno di inutili spiegazioni o didascalie: tutto è chiaro grazie al solo stile registico, pulito, originale, fluido, impeccabile. C’è la famiglia (troppo) ricca e c’è quella (troppo) povera: i due mondi non possono convivere e finiscono inevitabilmente per scontrarsi con violenza.
Parasite è forse anche specchio di quello che stiamo vivendo in questi tempi di pandemia da Covid. Mette bene in luce lo stato in cui vivono milioni di famiglie nel mondo, costrette in scantinati o tuguri di pochi metri quadri. Lo fa con cinismo e senza troppi scrupoli, in modo iperrealistico e spietato.
Ma la trama è davvero poco rilevante di fronte a cotanto splendore visivo: il film potrebbe benissimo essere muto e perfettamente appassionante lo stesso. Le inquadrature, i movimenti di macchina, le luci e le ombre, lo spazio architettonico sono pura narrazione senza parole.
La connessione con il tema individuato qui è palese. La famiglia povera vuole la vita della famiglia ricca. Ma la famiglia ricca è così sicura di volere la propria vita? La disperazione è palpabile e rende l’uomo ladro.

7. Martin Eden

Sono contenta di inserire un altro film italiano, che su Cineforum è dato al tredicesimo posto. Non so perché questa pellicola mi ha ricordato tanto il Truffaut a colori.
Si tratta di un film sulla lotta di classe, ma anche sull’amore per la letteratura. Due mondi si scontrano agli inizi del Novecento nel sud Italia. Il proletariato della classe operaia, che prende coscienza di sé, e la alta borghesia.
Qui il senso di insoddisfazione e frustrazione è fortissimo. Martin vorrebbe aver frequentato la scuola, essere nato in una famiglia più colta, essere un giovane educato all’altezza della donna di cui si è innamorato perdutamente. Vorrebbe essere uno scrittore, non un uomo di strada e di mare costretto al sacrificio e a una vita di espedienti. Egli anela a una relazione d’amore con una donna di rango diverso, incrocia due mondi che non si appartengono. E tutti, da una parte e dall’altra, non si dimenticano di ricordarglielo.
Più Martin si istruisce da autodidatta, più prende coscienza del mondo e delle sue ingiustizie. Si trova a cavallo tra due società diverse e non riesce a fare parte di nessuna delle due. Soprattutto quando riesce a raggiungere la fama, la disillusione si fa insopportabile e la posizione agognata diventa una terribile condanna che gli fa rimpiangere le sue origini umili.

8. C’era una volta a Hollywood

Tarantino ripete l’operazione compiuta in Pulp Fiction con Travolta e restituisce nuova vita a Pacino, Russel, Di Caprio, Pitt riportandoli ai loro antichi fasti.
Questo film è un omaggio al cinema e in particolare al cinema in pellicola. L’auto-citazionismo come sempre non manca (Inglorious Basterds, la benda di Kill Bill, The Hateful Eight, Django, Grindhouse – vedi la scena dei piedi sul cruscotto e Pitt che fa lo stuntman). Così come non mancano i suoi marchi di fabbrica, come le riprese dal basso e i carrelli laterali.
E come se non bastasse, Tarantino raffigura Polanski da giovane proprio quando Polanski torna a vincere premi (in mezzo alle polemiche) e strizza pure l’occhio a Il coltello nell’acqua nella scena in cui Brad Pitt e moglie sono in barca.
Ciliegina sulla torta la scenografia nella scenografia: il film è ambientato verso la fine anni Sessanta, che a loro volta sono calati nelle scenografie western. Si va così a costruire una complessa matriosca di film nel film.
Come accade in Django col ku klux klan, anche qui una scena potenzialmente e storicamente tragica come l’incursione omicida ordinata da Charles Manson ai danni della famiglia Polanski si trasforma in un siparietto di imbecilli che entrano nella casa sbagliata. E incontrano Pitt e di Caprio con un lanciafiamme… Immancabile lo splatter tarantiniano!
Ma come si può legare un film del genere al tema individuato? Rick Dalton, l’attore che vive relegato nel suo ruolo-macchietta di “cattivo dei film western” vede la sua carriera disgregarsi davanti agli occhi, vorrebbe essere Steve McQueen. Invece Steve McQueen gli ruba le parti. Rick è frustrato, vive una costante sensazione di inferiorità, con il quale persino una baby attrice lo costringe a confrontarsi.

9. Burning

La fluidità dei movimenti di macchina che seguono i personaggi e le loro entrate e uscite dall’inquadratura è emozionante, un piacere per gli occhi. In questo senso, un esempio di leggiadria di movimento – dentro e fuori la scena – è la danza al tramonto di Hae-mi, la protagonista femminile. La macchina da presa accarezza con delicatezza tutto ciò che sfiora, muovendosi con precisione da un luogo all’altro, da un personaggio all’altro.
Il film si ispira a un racconto di Murakami Haruki e la trama è sospesa tra il reale e l’onirico: la macchina da presa alimenta questa sensazione, trasformando il reale in sogno, un pulviscolo inafferrabile. Difficile capire cosa sia tangibile e cosa sia invece frutto del desiderio umano.
Tutto quello che voglio è sparire come il sole al tramonto. Morire fa troppa paura. Io voglio solo sparire. La disperata citazione di Hae-mi racchiude tutto il senso del nostro filo rosso. Jong-soo è intrappolato in una vita che vorrebbe diversa e si crea un immaginario alter ego che veste i panni di un giovane Gatsby coreano che vive la vita che probabilmente desidererebbe Jong-soo. Ben è bello, ricco, facoltoso, attraente, brillante e il suo hobby particolare diventa valvola di sfogo di Jong-soo, della sua rabbia e della sua solitudine.

10. L’ufficiale e la spia

Polanski torna in gran forma (e tra le polemiche). I costumi di questo film storico sono curati nei minimi dettagli e si inseriscono perfettamente nella fotografia di una Francia in crisi, instabile, quella della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Gli edifici plumbei della Terza Repubblica, puntinati dalle divise degli ufficiali, sono lo scenario perfetto in cui si svolgono i fatti di questo incantevole film che bilancia una trama coinvolgente, basata su una storia vera (l’Affare Dreyfus) a uno stile registico impeccabile, per niente consolatorio ma molto documentaristico.
Il colonnello Picquart combatte contro un sistema corrotto e antisemita, quello dell’esercito, che manda al patibolo uomini innocenti con la scusa di alto tradimento. Tuttavia il suo nobile senso di giustizia non può niente contro le alte cariche della Terza Repubblica francese.

11. The Mule

89 anni di Clint Eastwood dietro e davanti la macchina da presa sono un manifesto d’amore vivente per il cinema. Eppure Eastwood sa stare al passo, si sa aggiornare, segue il filone del cinema classico riverniciandolo di contemporaneità, nei temi che tratta e nello stile registico.
Bellissima la colonna sonora, da Dean Martin al country, fino all’ultimo emozionante pezzo di Toby Keith, un testamento, forse, così nostalgico e agrodolce.
Earl ha fallito come padre, marito e nonno, oltre ad aver fallito sul lavoro. Cerca di reinventarsi intraprendendo la strada del crimine, ma anche questa via sembra inadeguata per lui e la nostalgia è rivolta a un tempo passato che avrebbe potuto usare diversamente.

12. Un giorno di pioggia a New York

La stupenda fotografia accompagna lo spettatore in una New York senza tempo, una cartolina color seppia dal gusto retro. Un omaggio alla città e al cinema di Woody Allen (con tanto di giovane alter-ego), fatto di giacche di Tweed (che si intonano perfettamente al color mattone della grande mela) e dialoghi frenetici dalla velata isteria.
I movimenti di macchina sono eleganti e perfettamente cesellati. C’è un perfetto equilibrio tra esterni e interni: la macchina da presa sgattaiola dentro alle lussuose abitazioni e agli eleganti hotel della upperclass newyorchese per poi scivolare al di fuori con altrettanta leggiadra delicatezza, percorrendo le strade e i parchi della città baciati dalla pioggia.
I ruoli qui si invertono: non sono i poco abbienti a desiderare il posto dei primi della scala gerarchica, ma è più il contrario. Il ricchissimo Gatsby (ennesima connessione tra film, vedi Burning), membro di una tanto altolocata quanto pretenziosa famiglia newyorchese, desidera una vita meno perfetta. Gioca a fare l’anticonformista perché può permetterselo, si “abbassa” al livello medio, come intuisce la madre, per cercare la sua dimensione e la sua felicità.

13. La vita invisibile di Euridice Gusmao

La vita invisibile di Euridice Gusmao è una epopea al femminile sul patriarcato del Brasile degli anni Cinquanta.
Euridice e Guida sono due giovani sorelle che subiscono svariati tipi di violenza. Da parte di un padre padrone che decide il loro destino, dal marito di Euridice, che abusa di lei contro la sua volontà, dal marinaio Yorgos, che mette incinta la ingenua Guida e poi la abbandona, dallo Stato, che considera l’aborto un crimine, dai medici, che si coalizzano con i mariti violenti, dalla burocrazia, che impedisce a una madre single di viaggiare senza il consenso del padre del bambino.
Le due donne saranno separate contro la loro volontà e cercheranno di sopravvivere sole in una società che le priva della loro volontà, dignità e libertà di scelta.
La presenza costante del suono naturale della foresta amazzonica è penetrante, così come il paesaggio naturale, rappresentato da una bellissima fotografia.
L’aderenza al filo rosso è piuttosto evidente. Anche Euridice vuole sparire, le piace sparire, desidera sparire quando suona il piano, così come Hae-mi desidera sparire nel tramonto in Burning.
Euridice vuole lasciare il Brasile per studiare il piano al conservatorio di Vienna, ma è incastrata in un matrimonio di convenienza imposto dalla famiglia conservatrice. Vive, come suggerisce il titolo, una vita invisibile, nell’ombra di una sorella che Euridice crede essere libera ma che forse così libera non è.

14. Dolor y gloria

Questo melodramma da soap ci riporta agli antichi fasti della sua produzione, costellata di personaggi camp e queer che si muovono in spazi dai colori saturi e carichi, brillanti. Torna anche il concetto di meta-cinema: Almodovar combina infatti le tecniche della settima arte a quelle del teatro. L’arte si confonde con la vita ed è lo specchio dei rimorsi, degli errori e degli attimi di felicità che siamo riusciti a raggranellare in tanti anni.
Ho amato la rappresentazione del paesello in tufo e i quadri altamente pittorici che il regista ha creato all’interno delle cosiddette grotte.
Il dettaglio sugli arredi e le scenografie è maniacale e minuzioso e costituisce un piacere per gli occhi.
Almodovar ha conservato la sua capacità di scaldare il cuore e a questa dolcezza visiva contribuisce anche un invecchiato Banderas, feticcio del regista.
Todo el amor, direbbe Neruda: di Almodovar per il cinema, per i suoi attori (non manca la fidata Penelope Cruz), per il teatro, per la vita, per i legami familiari, per l’amore stesso.
Il regista Salvador Mallo vorrebbe essere sano, giovane e innamorato come un tempo. Forse addirittura tornare bambino: è insoddisfatto di ciò che è diventato, tanto da trasformare il suo desiderio in un film.

15. La casa di Jack

Lars Von Trier non si smentisce: il film è carico del suo sadico cinismo che si prende gioco dello spettatore e le riprese con la camera a mano rientrano perfettamente nel suo stile. E’ disturbante perché politicamente scorretto (pare che alcune scene siano addirittura state tagliate per l’eccessiva violenza), allo stesso tempo è fastidioso perché provocatorio come sempre.
L’analisi del regista si concentra sul concetto di arte, partendo da un serial killer colto e intelligente che cerca di migliorare la sua tecnica un omicidio dopo l’altro.
Ho avuto la sensazione che – come spesso accade – Von Trier parlasse a se stesso in modo molto autoreferenziale, didattico ma eccessivamente didascalico, soprattutto nel finale ambientato nell’inferno dantesco. Mi sembra tutto perfettamente in linea con il suo Dogma 95.
Anche Jack rientra perfettamente nella descrizione dell’uomo moderno frustrato. E’ un ingegnere che vorrebbe essere architetto, ha un disturbo ossessivo compulsivo che non gli permette di raggiunge la perfezione in quella che lui chiama “arte dell’omicidio”. Questo senso di frustrazione lo porta a perdere il controllo, a essere tutto ciò che non vorrebbe essere.

16. Zama

Storia di un ufficiale spagnolo dislocato in America del sud ai tempi del colonialismo europeo. Zama resta in costante attesa di un Godot che non arriva mail, nella speranza di fare carriera. L’immobilismo delle alte cariche dello stato che gli avevano promesso la promozione senza poi accordargliela e un’indole tutt’altro che pacifica lo spingono ad arruolarsi a una missione mortale, tra i feroci nativi che proteggono le loro terre dall’imperialismo bianco e un misterioso criminale spietato.
Un film a dir poco decadentista, in cui il paradiso delle spiagge sudamericane si trasforma in un inferno soffocante, caratterizzato da una vecchia borghesia meschina e sfruttatrice, da schiavitù, violenza e immobilismo (non solo fisico, ma anche culturale, vedasi l’episodio del libro), che rendono tutto molto angosciante. Un perfetto quadro della miseria e della solitudine umana.
Zama sognava la gloria e invece si trova relegato in un posto che non gli appartiene, immobilizzato in un ruolo amministrativo che lo mummifica al presente. Non gli resta altro che perdersi, imbarcandosi in una avventura che lo condannerà inevitabilmente.

17. I fratelli Sisters

La vicenda ruota intorno a degli antieroi spietati – i fratelli Sisters del titolo – che vanno alla ricerca dell’oro. Passano dall’ammazzare senza pietà al prendersi cura l’uno dell’altro con molta tenerezza. Infine tornano dalla madre in cerca di conforto, sconvolgendo le regole della virilità del cowboy tutto d’un pezzo. Consigliato se vi è piaciuto Il Grinta dei fratelli Coen.
Eppure anche i fratelli Sisters non sono molto convinti di quello che fanno e di dove stanno andando. L’episodio della ricerca dell’oro, in cui un terribile incidente con dei prodotti chimici causerà danni irreparabili, forse riesce ad aprire gli occhi alla coppia. Stufa ormai di viaggiare, uccidere, inseguire denaro. Stanca e desiderosa di un bagno e di una carezza materna.

18. I figli del Fiume Giallo

Il mondo occidentale irrompe nella cultura cinese sulle note di YMCA. Un film che parte come gangster movie ma diventa ben presto qualcosa di più profondo di una pellicola di genere: è il ritratto di un paese che cambia, tra le contraddizioni del passato e le speranze portate dalla modernità.
Bellissimi i carrelli laterali e la steadicam che seguono i movimenti di Qiao – la protagonista femminile – lungo le strade di Fengjie, tra negozi, cibi e profumi, tra passato, presente e futuro.
Qiao spara un colpo in aria con una pistola per difendere il suo amato da un agguato e deve scontare una pena in carcere della durata di cinque anni. Al suo rientro nella società, molte cose sono cambiate, lei per prima. A determinarne i passi di Qiao è il rimorso di aver sprecato anni importanti per una persona che non le è riconoscente e che si è rifatta presto una vita. Qiao sperimenta una difficoltà nel muoversi in una società maschilista ma è determinata a prendersi il suo posto. Allo stesso modo Bin perde il suo ruolo di facoltoso boss criminale a seguito di un incidente che lo costringerà alla sedia a rotte e la sua frustrazione diventa palpabile.

19. Joker

La pellicola non presenta una particolare attenzione formale, è piuttosto piatta e scialba. L’unica grande nota di merito a mio avviso è Joaquin Phoenix, grande interprete dai mille volti e dalle mille personalità che va gustato indubbiamente in lingua originale.
Eppure Joker è forse il più grande interprete del tema individuato. Egli vorrebbe essere sicuro di sé, brillante con le ragazze, un comico acclamato dal pubblico e apprezzato. Non certo il ragazzo problematico e fragile che è. Si costruisce un alter ego in grado di trasformare la sua frustrazione in potere distruttivo.

Conclusioni

Che sia questo il male di vivere contemporaneo? La frustrazione derivata dalla incapacità o impossibilità data dalle circostanze di realizzarci? Il senso di inadeguatezza che ci fa sentire stretti nelle nostre piccole vite e ci fa desiderare di essere qualcun altro?
Tutti i film citati sembrano suggerire proprio questa visione del mondo. Sicuramente non troppo rosea. E dopo l’esperienza di una pandemia globale, che ha bloccato l’intera macchina cinematografica, sarà questo il tema che caratterizzerà non solo il cinema, come ci hanno mostrato i migliori film del 2019, ma le nostre stesse vite?


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